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il fallito è legittimato a impugnare l’atto impositivo? #adessonews


Una società viene dichiarata fallita e l’Agenzia delle Entrate notifica al curatore tre avvisi di accertamento relativi a periodi antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Gli ex amministratori della s.r.l. impugnano gli atti e il giudice tributario dichiara nullo l’atto impositivo stante l’omessa notifica alla società. La difesa erariale impugna la decisione, contestando la legittimazione processuale dei ricorrenti.

Il soggetto fallito è legittimato ad impugnare l’atto impositivo che ha ad oggetto crediti i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento?

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La Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza 3 luglio 2023, n. 21333 (testo in calce), dopo un’ampia e complessa argomentazione, risponde affermativamente con alcune precisazioni. Vi sono casi specifici in cui l’ente fallito gode di una legittimazione suppletiva e rimediale. In particolare, la giurisprudenza ritiene che il fallito sia legittimato ad impugnare in caso di inerzia del curatore. Inoltre, il fallito vanta un concreto interesse a contrastare la pretesa erariale, atteso che le sanzioni (non accessorie ai debiti estinti) sono escluse dall’esdebitazione (art. 142 legge fall. e 278 CCI). Riassumendo, la legittimazione processuale straordinaria della società fallita e, quindi, dei suoi amministratori, ad impugnare l’atto impositivo sorge in caso di mera inerzia del curatore nei confronti dell’atto stesso, «con riferimento ai rapporti d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della declaratoria fallimentare».

La decisione è interessante perché affronta anche la questione dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fallito. La notifica dell’avviso solo verso il curatore fallimentare e non nei confronti del fallito-contribuente non comporta la nullità o l’inesistenza dell’atto impositivo. Dalla mancata notificazione discende l’inefficacia ed inopponibilità dell’atto impositivo verso il soggetto fallito e, quindi, anche verso «i soci ex amministratori destinati a succedere nei debiti fiscali dell’ente, i quali al pari di quest’ultimo rimangono legittimati ad impugnare tempestivamente l’atto a decorrere dal giorno in cui ne vengono effettivamente a conoscenza».

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La vicenda

Una s.r.l. viene dichiarata fallita nel 2014 e riceve tre avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate per il recupero di Irap, Ires e Iva in relazione alle annualità 2011, 2012, 2013. Il processo verbale di constatazione emesso in seguito alle operazioni di verifica viene notificato al curatore fallimentare della società. I soggetti che erano stati amministratori della s.r.l. nei periodi a cui si riferiscono gli avvisi di accertamento impugnano i tre provvedimenti. La Commissione Tributaria Provinciale e quella Regionale accolgono i ricorsi; in particolare, secondo i giudici tributari, l’omessa notifica degli avvisi di accertamento agli ex amministratori ne ha comportato l’invalidità e la conseguente decadenza dell’Ufficio dai poteri impositivi.

L’Agenzia delle Entrate ricorre in Cassazione con due motivi di ricorso:

  1. sostiene che il giudice tributario abbia erroneamente riconosciuto la legittimazione all’impugnazione in capo agli ex amministratori della s.r.l. che, invece, spetterebbe unicamente al curatore,
  2. e sostiene che l’omessa notifica all’ente fallito non comporti la nullità dell’avviso di accertamento né la decadenza dal potere impositivo.

Come vedremo, la Suprema Corte considera infondata la prima doglianza, mentre accoglie la seconda.

Analizziamo la pronuncia.

Le conseguenze del fallimento: lo spossessamento del debitore

Nel caso in esame trova applicazione il R.D. 267/1942 ma giova sottolineare che dal 15 luglio 2022 è entrato definitivamente in vigore il Codice della Crisi d’Impresa (così dispone l’art. 389 CCI).

I giudici di legittimità, prima di analizzare la questione della legittimazione del fallito ad impugnare, ricordano quali siano le conseguenze del fallimento. Il debitore, a far data dalla sentenza di fallimento (ora liquidazione giudiziale), non viene privato della titolarità dei rapporti patrimoniali ma è privato dell’amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento (art. 42 legge fall. e art. 142 CCI). In particolare, avviene il cosiddetto “spossessamento” che consiste nell’apprensione dei beni del debitore alla massa; il conseguente potere di gestirli passa, in via esclusiva, in capo al curatore sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori (art. 31 legge fall. e art. 128 CCI).

Lo spossessamento può essere analizzato in due prospettive:

  • da un lato, esso comporta una scissione tra la titolarità del bene (che spetta al debitore) e la disponibilità (rimessa al curatore) (Cass. 4676/1993);
  • dall’altro, si realizza una segregazione dei rapporti all’interno dello stesso patrimonio che non muta il titolare ma solo il gestore (Cass. 18002/2016).

La “segregazione” del patrimonio ha una durata transitoria e si esaurisce con la chiusura del procedimento concorsuale allorché il debitore può riespandere i propri diritti dominicali su ciò che residua del proprio patrimonio.

Legittimazione del curatore e legittimazione del fallito

La legge fallimentare (R.D. 267/1942) stabilisce che il curatore goda della legittimazione processuale, in luogo del fallito, nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento. In seguito allo spossessamento dei beni del fallito, il curatore viene investito della legittimazione attiva e passiva per tutte le controversie, anche già instaurate. L’apertura del fallimento (ora liquidazione giudiziale) determina l’interruzione del processo, infatti, da questo momento:

  • il fallito perde la disponibilità dei propri beni,
  • ed è privato della capacità di stare in giudizio nelle cause che li riguardano.

In virtù del meccanismo di sostituzione processuale previsto dalla legge, il curatore si sostituisce al fallito:

  • nei procedimenti promossi ante-procedura, dovendoli riassumere,
  • facendosi parte attiva nel promuovere altri giudizi diretti al recupero di beni o crediti alla massa fallimentare.

Il fallito mantiene la legittimazione a fare ingresso nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge (art. 43 c. 2 legge fall. e art. 143 CCI). Nel caso sia già in giudizio il curatore, in relazione alle fattispecie testé indicate, il fallito può esperire un intervento adesivo autonomo, invece, al di fuori di tali ipotesi, si configura solo la possibilità di un intervento adesivo dipendente «essendo inibita al debitore l’opportunità di contrastare in giudizio la sentenza che definisce il processo, indipendentemente dall’eventuale impugnazione proposta dall’organo concorsuale» (Cass. n. 4597/2018). Giova ricordare che con l’intervento adesivo litisconsortile o autonomo (art. 105 c. 1 c.p.c.) l’interveniente fa valere il suo diritto nei confronti di alcune delle parti; mentre con l’intervento adesivo dipendente (art. 105 c. 2 c.p.c.) l’interveniente non fa valere un proprio diritto ma si limita a sostenere le ragioni di una delle parti, assumendo una posizione subordinata ad essa (C. MANDRIOLI – A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, Torino, Giappichelli, 2014, 451-452).

In ragione di quanto esposto, emerge che il soggetto insolvente non è legittimato all’assunzione di iniziative giudiziali, anche se urgenti in quanto dirette ad evitare un pregiudizio a proprio carico, poiché deve intervenire il curatore, il quale deve contemperare gli interessi della massa e quelli del debitore.

Riassumendo, il fallito mantiene la propria legittimazione in relazione:

  • alle questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge (art. 43 c. 2 legge fall. e art. 143 CCI),
  • ai rapporti non compresi nel fallimento e non costituenti oggetto di spossessamento,
  • ai rapporti personali (art. 46 legge fall. e art. 146 CCI) che rimangono estranei agli effetti ablativi del fallimento (Cass. 12264/2019 in materia di fondo patrimoniale1),
  • ai giudizi di reclamo contro il fallimento (art. 18 legge fall.) a patto che non sia stato lo stesso debitore a domandare l’accertamento della propria insolvenza, il cosiddetto “autofallimento”;
  • in caso di inerzia del curatore rispetto a rapporti e questioni giuridicamente rilevanti (si tratta di una “valvola di sicurezza” creata dalla giurisprudenza).

Il debitore insolvente rimane soggetto passivo del rapporto tributario

I giudici di legittimità evidenziano come la legittimazione del soggetto insolvente ad impugnare l’atto impositivo, in caso di inattività del curatore, sia stata affermata in numerose decisioni di legittimità e, ormai, assurga a postulato (Cass. 26506/2021; Cass. 2910/2010). La legittimazione dell’insolvente ad impugnare sorge dalla mera inattività della curatela, è irrilevante se tale inerzia costituisca espressione di una precisa scelta (nel caso di specie, il curatore non ha impugnato gli avvisi in seguito al diniego del giudice delegato).

Oltre a ciò, nel fallimento, il debitore non è privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario (Cass. 4235/2006) e rimane esposto alle ripercussioni dell’atto impositivo. Infatti, lo spossessamento non incide sotto il profilo dell’imposizione fiscale. Secondo i giudici di legittimità «l’ablazione prevista dall’art. 42 L. Fall. non lambisce, in effetti, l’identità del soggetto giuridico cui è riferibile l’obbligazione tributaria, che è e rimane quella dell’ente insolvente».

Con il fallimento (ed ora con la liquidazione giudiziale) il soggetto passivo del rapporto tributario rimane il medesimo ma muta il soggetto legittimato ad occuparsi dei procedimenti fiscali. In altre parole, il curatore adempie agli obblighi con l’erario ma è scevro di un’autonoma soggettività tributaria. Gli atti del procedimento tributario compiuti prima dell’apertura del concorso, quantunque intestati al contribuente, sono opponibili alla curatela, mentre quelli posti in essere dopo possono e devono indicare come destinataria l’impresa sottoposta alla procedura, individuando la mera rappresentanza in capo al curatore.

Il curatore ha il compito di tutelare, da una parte, l’interesse dei creditori concorrenti e, dall’altra, l’interesse del soggetto fallito a non subire, dopo la procedura, pretese creditorie – come quelle scaturenti da un avviso di accertamento – che avrebbero potuto essere confutate con una sollecita gestione da parte del curatore (Cass. 3667/1997).

Impugnazione dell’avviso in caso di inattività del curatore: il principio di diritto

Come abbiamo visto, la giurisprudenza ritiene sussistente la legittimazione processuale del fallito rispetto all’atto impositivo nell’ipotesi di inerzia del curatore e degli organi fallimentari a prescindere dalla ragione di detta inattività. Si tratta di una legittimazione suppletiva e rimediale posta in capo al soggetto fallito. Tale esegesi si fonda sul combinato disposto dell’art. 43 legge fall. (che prevede la legittimazione processuale del curatore) e dell’art. 21 d. lgs. 546/1992 (che stabilisce il termine entro cui proporre ricorso), in quanto rappresenta un’interpretazione conforme al principio di difesa costituzionalmente garantito (Cass. 3020/2007; Cass. 4113/2014).

Secondo un orientamento risalente, il soggetto fallito gode di una legittimazione succedanea a quella del curatore solo nel caso in cui sussista un totale disinteresse degli organi fallimentari e non già una valutazione negativa in ordine alla convenienza della controversia; in quest’ultimo caso, è esclusa la legittimazione suppletiva del fallito (Cass. 16926/2009; Cass. 8132/2018). Nel tempo, si sono susseguite decisioni contrastanti: alcune pronunce esigevano una semplice inattività del curatore (Cass. 3094/2005); altre ritenevano sussistente la legittimazione del fallito solo nel caso in cui la curatela avesse dichiarato espressamente di volersi disinteressare del rapporto tributario in contestazione (Cass. 3321/1993). Tale contrasto è stato composto dalle Sezioni Unite, secondo le quali rileva «il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia […] indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato» (Cass. SS. UU. 11287/2023).

Riassumendo, la società fallita e i suoi amministratori sono dotati di legittimazione processuale in caso di mancato compimento di un’attività giudiziale da parte del curatore a prescindere dal fatto che tale inattività costituisca espressione di una consapevole astensione da parte dell’organo concorsuale.

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Gli ermellini enunciano il seguente principio di diritto:

  • «In tema di fallimento, con riferimento ai rapporti d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della declaratoria fallimentare, la “mera inerzia” assunta dal curatore nei confronti dell’atto impositivo è sufficiente a far sorgere la legittimazione processuale straordinaria della società fallita, quindi dei suoi amministratori, ad impugnarlo».

Il fallito ha interesse a contrastare la pretesa erariale

Il riconoscimento della legittimazione del soggetto fallito dipende anche dal fatto che egli vanta un concreto interesse a contrastare la pretesa erariale, atteso che le sanzioni sono esclude dall’esdebitazione (art. 142 legge fall.). Giova ricordare che l’esdebitazione “consiste nella liberazione dai debiti e comporta l’inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata” (278 CCI). Restano esclusi dall’esdebitazione a) gli obblighi di mantenimento e alimentari; b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonché le sanzioni penali e amministrativedi carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti (art. 278 c. 7 CCI).

In buona sostanza, la sanzione tributaria “madre” va corrisposta per intero anche successivamente alla chiusura del fallimento. Infatti, quando viene chiuso il fallimento (per riparto finale o insufficienza di attivo), il curatore procede alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese e, quindi, avviene il passaggio delle passività insolute con l’erario in capo ai soci «salve le limitazioni connesse alle rispettive posizioni, nel quadro del modello societario impiegato». Al lume di ciò, l’esclusione della legittimazione del debitore si porrebbe in contrasto con il fatto che il rapporto d’imposta persiste. In ragione di ciò, secondo gli ermellini, nel caso di specie, gli amministratori della società fallita erano portatori di un interesse ad agire, stante il disimpegno del curatore (dopo il provvedimento di diniego del giudice). Inoltre, la legittimazione suppletiva dei soci ex amministratori si fonda anche sul fatto che il fallimento determina un fenomeno successorio, pertanto, i rapporti che facevano capo all’ente non si estinguono ma si trasferiscono ai soci, i quali rispondono dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso nella liquidazione oppure illimitatamente a seconda del regime giuridico applicabile (Cass. 6070/2013).

Il diritto di difesa del fallito per il debito tributario

Il debitore alla tutela giurisdizionale anche verso atti che non hanno ricadute nei confronti dei creditori ma che possono aumentare il passivo e intaccare il patrimonio su cui l’insolvente vanta un interesse recuperatorio (Cass. 22045/2016; Cass. 6904/2010). L’atto impositivo rileva non solo sotto il profilo economico ma anche relativamente alle conseguenze che possono derivare in capo al fallito. La perdita della capacità processuale è una conseguenza della procedura concorsuale ed è posta a tutela dei creditori; per maggior precisione, la capacità processuale del fallito non viene persa in toto ma si affievolisce. L’esclusione della sua legittimazione vale solo con riferimento allo spossessamento. Nel caso del debito tributario, riconoscere la legittimazione del soggetto insolvente non pregiudica in alcun modo la posizione dei creditori. Gli ermellini precisano che:

  • «se l’art. 96, ult. co., L. Fall. (ora art. 204, co. 5, CCII) prevede che il decreto di esecutività dello stato passivo e le decisioni assunte all’esito dei relativi giudizi d’ impugnazione “producono effetti soltanto ai fini del concorso”, tale regola non è estensibile alle parentesi cognitorie extrafallimentari sui crediti demandate alle commissioni tributarie. Chiuse dette parentesi, la decisione che ne segna l’epilogo è, in linea di principio, opponibile al soggetto fallito»

Notifica solo al curatore: l’avviso non diventa definitivo verso il fallito

La difesa erariale, con il secondo motivo di ricorso, ritiene che il giudice tributario abbia errato nel sostenere che l’omessa notifica degli avvisi di accertamento agli ex amministratori determini l’invalidità degli avvisi stessi.

La Suprema Corte considera fondata la doglianza.

Nel caso di specie, gli atti impugnati hanno ad oggetto crediti i cui presupposti sono maturati prima della dichiarazione di fallimento, in tale circostanza, la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’avviso di accertamento vada notificato non solo al curatore ma anche al contribuente che non è privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e che rimane esposto alle conseguenze sanzionatorie scaturenti dall’atto impositivo divenuto definitivo (Cass. 26127/2019; Cass. 28707/2018; Cass. 11618/2017; Cass. 4113/2014; Cass. 2910/2009). In caso di omessa notifica, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l’atto non diviene definitivo (Cass. 5392/2016). Inoltre, se l’atto è stato notificato solo al curatore e non alla società fallita, il termine per proporre impugnazione – per il fallito – decorre dalla comunicazione dell’intera documentazione relativa alla pretesa erariale. Grava poi sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare quando l’atto sia venuto a conoscenza del contribuente per individuare la data dalla quale decorre il termine per la proposizione del ricorso (Cass. 7874/2015).

Tutto ciò premesso,è inesatta l’affermazione della CTR secondo cui l’omessa notifica ai soci avrebbe determinato la decadenza dal potere accertativo e impositivo. Infatti, la legge non prevede

  • che l’avviso di accertamento sia notificato al socio ex amministratore
  • né che la doppia notifica (al curatore e al soggetto fallito) costituisca una condizione di legittimità dell’atto.

Pertanto, se la notifica al curatore è regolare, l’omessa notifica alla società fallita non comporta la nullità o l’inesistenza dell’avviso né determina la decadenza dal potere accertativo. L’unica conseguenza consiste nel fatto che la notifica degli avvisi produce effetti nei confronti del curatore e non anche nei confronti dei soci ex amministratori (che sono destinati a succedere nei debiti fiscali della società).

Riassumendo, l’ente impositore non è obbligato a pena di nullità a notificare l’avviso di accertamento sia al curatore sia alla società fallita, ma l’omessa notifica al fallito condiziona l’opponibilità dell’atto nei suoi confronti. Nei confronti del fallito l’accertamento decorre:

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  • solo dal momento in cui sia eseguita la notifica del relativo avviso,
  • oppure dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza e sia stato posto nella condizione di difendersi.

Conclusioni: il principio di diritto

Nel caso in esame, i soci ex amministratori hanno impugnato l’avviso di accertamento – di cui non hanno ricevuto la notifica – nel momento in cui ne hanno avuto conoscenza. La CTR ha errato nel sostenere che l’avviso sia affetto da nullità, mentre avrebbe dovuto sindacare la fondatezza della pretesa dei ricorrenti. Gli ermellini enunciano il seguente principio di diritto:

  • «in tema di fallimento, la notifica dell’avviso di accertamento nei confronti del solo curatore, e non anche nei riguardi del contribuente, non comporta la nullità o inesistenza dell’atto impositivo, tantomeno la decadenza dell’Amministrazione dal potere accertativo; dalla notifica dell’avviso esclusivamente all’ indirizzo dell’organo concorsuale deriva, piuttosto, l’inefficacia ed inopponibilità di esso al soggetto fallito, quindi anche ai soci ex amministratori destinati a succedere nei debiti fiscali dell’ente, i quali al pari di quest’ultimo rimangono legittimati ad impugnare tempestivamente l’atto a decorrere dal giorno in cui ne vengono effettivamente a conoscenza».

La Suprema Corte accoglie il secondo motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate e cassa la sentenza con rinvio al giudice di tributario anche per la regolazione delle spese di legittimità.

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NOTE

[1] La Suprema Corte ha affermato che “Sebbene, ai sensi dell’art. 43 della legge fallimentare, la perdita della legittimazione processuale del fallito coincida con l’ambito dello spossessamento fallimentare, poiché i rapporti relativi alla costituzione di un fondo patrimoniale non sono compresi nel fallimento (trattandosi di beni che, pur appartenendo al fallito, rappresentano un patrimonio separato, destinato al soddisfacimento di specifici scopi che prevalgono sulla funzione di garanzia per la generalità dei creditori), permane rispetto ad essi la legittimazione del debitore-fallito, sicché sussiste la legittimazione processuale di quest’ultimo nel giudizio avente ad oggetto la revocatoria ordinaria del fondo patrimoniale” (Cass. 12264/2019).




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