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La NATO a Sud: lo strabismo di Marte #finsubito prestito immediato

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La NATO, spesso anche fra centri studi, è come il libretto rosso di Mao Zedong: tutti lo agitano, ma nessuno lo legge. Del resto, anche l’Unione Europea non se la passa molto meglio: è il tema asessuato di cantori eurolirici ed euroscettici, oggetto di oscuri desideri e sterile avversione, ma la sua stessa trimurtica mole burocratica è un ostacolo formidabile a chi non vive l’euroesoterismo.

Teoricamente l’Alleanza, con il suo scarno trattato e una struttura civile di appena 7 divisioni, dovrebbe essere di più facile comprensione, ma poiché la propaganda su di essa è sostanzialmente affidata ai paesi membri, resta un argomento oscuro persino nei fondamentali.
È chiaro che il dibattito attuale si concentra ossessivamente sull’Ucraina, ma la NATO non è fatta solo di 33 alleati (più dei 27 membri UE), ma della bellezza di 41 paesi ed organizzazioni partner, sparsi per il globo (attivi e sospesi inclusi). Tra i più importanti – per ovvi motivi geografici, strategici e di stabilità internazionale – vi sono i partner a Sud, cioè i paesi del Dialogo Mediterraneo (Mediterranean Dialogue) e dell’Istanbul Cooperation Initiative.

Il Dialogo è nato nel 1994 (riunione ministeriale del Consiglio Nord Atlantico di Bruxelles), come anche il Partenariato per la pace, appena 5 anni dopo l’implosione del Patto di Varsavia, per superare antiche diffidenze nel mondo arabo in Nord Africa e Levante nei confronti dell’Alleanza, vista soprattutto dai governati come un bieco strumento al servizio dell’imperialismo nord-americano. In due ondate (1995 e 2000) sono entrati a farne parte prima Egitto, Israele, Mauritania, Marocco, Tunisia, Giordania e poi l’Algeria. Erano gli anni della pace Israele-Giordania e degli Accordi di Oslo, dissennatamente soffocati nella culla. Appena tre anni dopo l’ingresso dell’Algeria, gli Stati Uniti invasero l’Iraq, impelagandosi in una fallita controguerriglia d’occupazione, terminata nel 2011 (Seconda Guerra del Golfo).
I principi che reggono questo dialogo politico-militare sono tutt’ora: nessuna discriminazione, trattamento differenziato scelto da ogni partner, impegno reciproco tra partner e NATO, non-imposizione, diversità e complementarietà con altre iniziative regionali. Insieme al dialogo politico, l’altro pilastro è rappresentato da attività di cooperazione pratica a livello soprattutto militare (seminari, esercitazioni, assistenza tecnica, operazioni congiunte, ecc.). Egitto, Giordania e Marocco hanno contribuito concretamente con truppe alla lunga stabilizzazione dei Balcani Occidentali, mentre la Giordania si è impegnata anche in Afghanistan e Libia.

Tuttavia la componente essenziale è il dialogo politico che viene intessuto durante tutto l’anno dal livello dei capi di stato (anche con il Segretario Generale della NATO), fino a quello di ambasciatori per arrivare agli stati maggiori militari. I temi sono quelli scelti individualmente e in aggregato dalle parti e comprendono: diffusione di conflitti oltre i territori di stati fragili o falliti, instabilità, terrorismo, traffici illegali, sicurezza marittima e non proliferazione in tutti i suoi aspetti. Purtroppo la regione ha continuato a fornire ampia materia di contatto e collaborazione, sino a quando la volontà politica non è venuta a mancare.

La Istanbul Cooperation Initiative (ICI) nasce in tempi completamente diversi nel giugno 2004: lontano dai riflettori internazionali scoppia la rivolta di Sa’dah nel lontano nord Yemen, scatenata dagli Houthi contro il governo centrale (10 anni dopo deflagrerà in una guerra civile generale e 20 anni dopo sarà una minaccia per la navigazione internazionale), mentre invece tutta l’attenzione è rivolta alla tremenda battaglia di Falluja, scontro culminante della disastrosa pacificazione in Iraq. Dentro la NATO, che non è parte della Seconda Guerra del Golfo, cresce l’esigenza di aumentare i rapporti con il mondo arabo, specialmente in un periodo di forti tensioni internazionali e tra gli alleati (il no esplicito di Francia e Germania e l’astensione dell’Italia dall’invasione, la manipolazione e divisione tra Old and New Europe). Una paziente opera di tessitura diplomatica nella Penisola Arabica, resa più complicata dalle esigenze di verifica dell’adesione dei singoli paesi espresse dai francesi, fa scoprire ai vertici dell’Alleanza che, mentre la piazza araba può essere antiamericana e quindi anti-NATO, i palazzi non hanno un orientamento perché in concreto non conoscono affatto quest’organizzazione, finendo per avere un atteggiamento alquanto favorevole dopo aver capito la natura e il perimetro della cooperazione. Si arriva così all’adesione formale di Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, cioè i dei due terzi dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council-GCC), e alla partecipazione ad hoc nelle attività ICI dei due restanti. Mentre l’Oman era rimasto cauto nel suo desiderio di conservare le sue fruttuose relazioni con Tehran, l’Arabia Saudita si era bloccata tra un ministero degli Esteri favorevole all’ingresso e quello della Difesa contrario. Con ogni probabilità la sua posizione egemonica nel GCC, sconsigliava un’adesione alla pari e ha in effetti portato alla perdurante ricerca di una posizione speciale nell’ICI.

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Per i successivi cinque anni alla creazione dell’ICI, i partenariati a Sud ebbero il giusto impulso nella combinazione di dialogo ed attività collaborative, ma eventi al di fuori di quella regione geografica portarono gradualmente, a partire dal 2009, in una direzione molto differente. Nonostante il dibattito politico-diplomatico sui partenariati fosse molto intenso, al punto che, durante la presidenza Obama, vi erano chiari segnali politici che l’Europa stava diventando molto meno centrale nella visione strategica di Washington e che nel vertice NATO di Riga del 2006 si parlava di una Global NATO, proprio nel Vecchio Continente le condizioni stavano mutando. Nel 2007 il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin dichiarava alla Conferenza per la Sicurezza di Monaco di Baviera come i rapporti con la NATO si stessero seriamente deteriorando su due questioni-chiave: l’allargamento dell’Alleanza a Est e la messa in opera di un sistema antimissile contro il rischio di missili iraniani Shahab-3, tesi non creduta da Mosca. L’anno successivo il vertice di Bucarest “apre la porta” all’ingresso di Georgia e Ucraina nell’Alleanza, mentre in agosto scoppia la guerra russo-georgiana: il resto è cronaca recente o attuale. Il segretario generale danese Anders Fogh Rasmussen cercò di navigare dal 2009 fino al 2014 in un ambiente internazionale sempre più complesso, addirittura tentando di rilanciare i partenariati esistenti e nel globo, tenendo assieme la collaborazione con la Russia (partner di primo livello). Tutto questo comincia a sgretolarsi durante la crisi di Euromaidan (21/11/2013-22/2/2014).
Il mandato decennale del norvegese Jens Stoltenberg comincia quando l’annessione illegale della Crimea alla Russia (marzo 2014) è un fatto compiuto e un mese dopo che il vertice del Galles (settembre 2014) aveva tirato le prime conseguenze politiche e strategiche delle operazioni ibride russe. Da un lato vi sono state priorità reali, tra cui la seria tensione tra USA e la maggioranza degli alleati durante la presidenza Trump intorno alla questione della ripartizione degli oneri (burden sharing) e l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, dall’altro un totale disinteresse per le questioni della Regione Sud della NATO ben prima della guerra in Ucraina.

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Evidentemente, i paesi a nord e a oriente hanno memorie storiche vivide della vicinanza o dell’occupazione del grande fratello sovietico, il che, insieme agli eventi recenti, porta queste dirigenze politiche a una visione a tunnel, oltre la quale il resto viene considerato irrilevante. Chiaramente, chi non ha nel suo passato una cultura strategica ampia, è ancorato a un continentalismo ottocentesco. Questo è un errore di prospettiva politico-strategica e un atteggiamento divisivo in un’alleanza: essa tiene non solo perché c’è un alleato di riferimento, ma perché tutti gli alleati riscontrano un interesse per continuarla. L’alleanza si basa sul fatto che la sicurezza è indivisibile e che è anche a 360 gradi.
In questi anni la Regione Sud è stata colpita dallo strabismo di Marte: un occhio fisso sull’Ucraina con risultati molto “aperti” e un occhio storto che ignora l’evidenza e porta a danni concreti. Per coloro i quali pensano che il mondo ruoti praticamente intorno alla Russia di Putin, è istruttivo constatare che, nel frattempo, i russi hanno strategicamente aggirato l’Europa con effetti piuttosto pesanti. Basta una semplice lista:

2015 Siria
2017 Sudan
2018 Libia, Madagascar, Repubblica Centrafricana
2019 Mozambico
2021 Mali
2024 Burkina Faso, Niger.

Se non staremo attenti, al ricco carniere si potrebbero aggiungere Tunisia, Ciad, Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe; sarebbe un magro conforto sapere che la Cina sarebbe il partner commerciale dominante in molti di questi paesi e Mosca un fornitore di sicurezza e d’armi. Il Nord Africa, che comprende anche la Mauritania come partner, è la prima linea di contatto col Sahel, così come Giordania, Israele (e Turchia) lo sono per la Siria. Invece, finora, “Dispersi in Libia” sono i partenariati.

C’è tuttavia un’altra dimensione della sicurezza cooperativa (terza missione essenziale della NATO) che non appare ai decisori distratti; se non avessimo perso questo decennio, avremmo potuto, per esempio: convincere prima l’Arabia Saudita ad entrare nella partnership e non indurla a lavorare con Pechino per rafforzare la sua sicurezza; sostenere meglio indirettamente gli accordi di normalizzazione (cosiddetti di Abramo); vigilare meglio sulla situazione libica, facendo leva sulla collaborazione algerina e tunisina; assistere meglio paesi come Egitto e Giordania nel complicato (e ora esplosivo) scacchiere levantino. Senza dimenticare che avremmo potuto aumentare la coerenza tra alleati, incluse Francia e Turchia.
Senza la spinta convinta di Stati Uniti, Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Grecia e Turchia, il vertice di Vilnius del 2023 non avrebbe mai dato l’incarico a Stoltenberg di formare un gruppo di riflessione sulla regione e, nonostante seri tentativi di neutralizzare tale riflessione, il vertice di Washington di quest’anno non avrebbe mai formulato la direttiva di nominare un rappresentante speciale per il Vicinato Meridionale, né deciso di aprire un ufficio di collegamento ad Amman (il primo da 30 anni nella regione).

È un segnale notevole, ma, come disse chiaramente un grosso calibro saudita all’ultimo convegno del 2023 della NATO Defense College Foundation: “Ma lo volete un amico stretto di lunga data, lo volete più vicino ancora o che se ne vada? L’unico motivo per cui i paesi del Golfo guardano ai BRICs e alla Shanghai Cooperation Organisation, è che si sono sentiti in qualche modo trascurati, messi al margine, senza la necessaria protezione, nonostante detengano importanti risorse energetiche”. I paesi di una regione già molto pericolosa, vogliono una relazione concreta e non una “situationship”.

 

Nota: le valutazioni dell’autore sono personali e non coinvolgono la NATO o nessuna delle sue agenzie.
Fonte immagine copertina: imagoeconomica.it

 





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