Con l’ordinanza n. 17754/2024 (testo in calce), la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in tema di azioni a difesa della proprietà.
Richiamando la costante giurisprudenza sul punto, i giudici rammentano che l’azione di rivendicazione e quella di restituzione tendono al medesimo risultato ma hanno natura e presupposti diversi: con la prima, che ha natura reale, l’attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce per ottenerlo, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà.
La seconda azione, di natura personale, mira invece alla riconsegna del bene: l’attore può quindi limitarsi a dimostrarne l’avvenuta consegna in base ad un titolo, ed il successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o anche allegare l’insussistenza “ab origine” del titolo stesso.
In tale seconda ipotesi, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti e la controversia va decisa unicamente in relazione alla pretesa dedotta.
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Il caso
Una S.r.l. agiva giudizialmente nei confronti di due fratelli per ottenere la declaratoria di occupazione abusiva di un’immobile, originariamente detenuto dai genitori dei convenuti.
Il Tribunale di Napoli respingeva la domanda e la pronuncia veniva confermata anche in appello.
Il giudice di secondo grado rilevava che il rapporto obbligatorio personale sarebbe sorto solo tra la S.r.l. e i genitori degli appellati e che, trattandosi di un rapporto personale di abitazione, il relativo diritto si sarebbe estinto alla morte dell’ultimo dei coniugi, sicché i figli avrebbero detenuto l’immobile senza titolo.
La domanda incardinata dall’attore avrebbe quindi dovuto qualificarsi non in termini di restituzione di immobile ma come domanda di rivendicazione, ex art. 948 c.c., per la quale tuttavia, secondo la Corte, l’appellante non aveva fornito prova idonea.
La S.r.l. impugnava la sentenza per cassazione.
Il ricorso per cassazione
Tra i motivi di doglianza, la società contestava la qualificazione della domanda come rivendicazione, posto che i danti causa delle controparti avrebbero trasmesso non un titolo, ormai estinto e costituente la ragione della detenzione, ma la correlativa obbligazione alla restituzione della casa, conseguente al venir meno del titolo.
Lamentava inoltre un vizio di extrapetizione, in quanto la Corte d’Appello avrebbe sostituito d’ufficio un’azione diversa rispetto a quella formalmente proposta e decisa dal giudice di primo grado.
Azione di rivendicazione e azione di restituzione
Secondo la Corte entrambi i motivi sono fondati.
Le più recenti pronunce di legittimità precisano che, in materia di difesa della proprietà, l’azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo al medesimo risultato, cioè il recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di natura reale, l’attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce per conseguirne nuovamente la disponibilità, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà.
La seconda azione ha invece natura personale e mira non tanto al riconoscimento del diritto di proprietà (di cui non va fornita alcuna prova) ma alla riconsegna del bene: l’attore in restituzione può quindi limitarsi a dimostrarne l’avvenuta consegna in base ad un titolo ed il successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o anche allegare l’insussistenza “ab origine” del titolo stesso.
In tale seconda ipotesi, chiariscono i giudici, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti.
Infatti, chiarisce la Corte, non solo la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, ma concludere diversamente farebbe assurgere la semplice contestazione del convenuto a strumento processuale idoneo a mutare non solo l’azione, ma anche l’onere della prova gravante sull’attore, imponendogli una probatio diabolica della revindica ben più onerosa di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta (così Cass. Sez. 2, n. 26003 del 23 dicembre 2010).
La posizione della Corte
Nel caso di specie, l’azione era stata proposta per ottenere la declaratoria di occupazione senza titolo dell’immobile da parte dei convenuti, “con contestuale condanna all’immediato rilascio”, sulla scorta del fatto che il diritto di abitazione, riconosciuto ai genitori, si fosse estinto alla loro morte.
Trattavasi, dunque, di azione di restituzione e, come già ricordato, l’attore in restituzione non ha l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà ma solo dell’originaria insussistenza o del sopravvenuto venir meno – per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio dell’eventuale facoltà di recesso – del titolo giuridico che legittimava il convenuto alla detenzione del bene nei suoi confronti.
Conclusioni
La Corte d’Appello non si è invece attenuta a tali principi, non avendo verificato se parte attrice avesse dedotto proprio il venir meno del diritto di abitazione da parte degli eredi, detentori dell’immobile ricevuto dai genitori, unici titolari del predetto diritto.
Così facendo ha fatto scaturire conseguenze probatorie ben più gravi per la società attrice, rispetto a quelle che sarebbero derivate da un’eventuale azione nei confronti dei danti causa, qualora fossero rimasti in vita.
Di qui la cassazione della sentenza ed un nuovo riesame della vicenda da parte del giudice del rinvio, alla luce dei principi sopra esposti.
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