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Violenza contro popolazione civile in territori indebitamente occupati: è atto terroristico #adessonews


Costituiscono atto terroristico le condotte violente rivolte contro la popolazione civile presente in territori che, in base al diritto internazionale, devono ritenersi illegittimamente occupati (Cassazione penale, sentenza n. 32710/2024 – testo in calce).

Diritto penale e processo, Direttore scientifico: Spangher Giorgio, Ed. IPSOA, Periodico. Mensile di giurisprudenza, legislazione e dottrina – La Rivista segue l’evoluzione del diritto penale sostanziale e processuale.
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Il fatto

La vicenda sulla quale si innesta la pronuncia che si annota è un incidente cautelare relativo alla sottoposizione a custodia cautelare in carcere del ricorrente, quale membro di un’associazione – aderente a un gruppo terroristico inserito nella black list dell’Unione europea – impegnata nell’organizzazione di un attentato presso l’insediamento israeliano nei territori della Cisgiordania.

Avverso l’ ordinanza di conferma della misura restrittiva da parte del Tribunale del riesame, il ricorrente proponeva ricorso per cassazione nel quale, dopo un’ampia premessa sulla legittimità delle condotte di resistenza, anche armata, poste in essere nei territori palestinesi occupati e aventi ad oggetto esclusivamente obiettivi militari, deduceva la violazione di legge in relazione all’art. 270-bis cod. pen. e il vizio di motivazione. In particolare:

  • censurava l’erronea applicazione da parte del Tribunale delle massime giurisprudenziali che danno rilievo all’inserimento di una determinata associazione nella black list dell’Unione europea, in difetto della verifica, in concreto, dello svolgimento di attività di natura terroristica;
  • contestava la gravità indiziaria con riferimento al compimento di azioni contro obiettivi civili, desunta dal fatto che l’ attentato da realizzare presso l’insediamento israeliano dovesse essere “eclatante” e coinvolgere un gran numero di persone, sostenendo che la condotta progettata aveva ad oggetto esclusivamente le strutture militari e che il video cui era stata attribuita rilevanza (rinvenuto sul cellulare di un associato e nel quale si vedeva un altro associato intento a sparare nel mezzo di una strada di un centro abitato, senza che vi fossero militari) aveva esclusivamente una finalità propagandistica;
  • criticava la circostanza che le presunte attività terroristiche potessero ritenersi dirette “contro uno Stato estero”, come richiesto dall’art. 270-bis, comma 3, cod. pen., posto che l’attività in programma risultava circoscritta ai territori della Cisgiordania che, in base a plurime risoluzioni dell’ONU, sono illegittimamente occupati da Israele;
  • stigmatizzava la sussistenza dei gravi indizi di partecipazione all’associazione quanto alla consapevolezza della “finalità di terrorismo” assumendo che gli elementi valorizzati, essenzialmente consistenti nell’interesse mostrato dal ricorrente alle vicende inerenti la resistenza palestinese attraverso immagini diffuse in rete, rientravano in una finalità propagandistica e che l’attività di propaganda non costituirebbe di per sé reato, se collocata nell’ambito dell’attività di resistenza svolta dai palestinesi nei confronti di Israele e in relazione ai territori illegittimamente occupati della Cisgiordania.

La sentenza

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato demandando al Tribunale del riesame, in sede di rinvio, l’onere di individuare elementi – dotati della necessaria gravità indiziaria – dai quali desumere l’effettiva partecipazione del ricorrente all’associazione terroristica e il compimento di atti concretamente dimostrativi di tale adesione, non potendo questi essere limitati alla generica condivisione delle ragioni della contrapposizione tra palestinesi e israeliani: nel caso del ricorrente, infatti, la gravità indiziaria era stata desunta dal fatto che condividesse l’appartamento con un membro del gruppo terroristico incriminato e provenisse, come questi, dai territori palestinesi occupati; tuttavia, al di là dell’interesse mostrato per i movimenti palestinesi, il ricorrente non aveva intrattenuto rapporti con l’associazione in quanto tale mentre, come noto, il reato associativo presuppone necessariamente che l’associato sia riconosciuto tale dal gruppo di riferimento e, al contempo, fornisca un contributo individuabile e non riconducibile alla mera condivisione dei medesimi intendimenti.

La sentenza è estremamente interessante perché, rispondendo alle censure del ricorrente su plurime questioni sollevate in ordine alla fattispecie in contestazione, i giudici di legittimità hanno fissato alcuni principi guida nell’interpretazione della disposizione normativa di cui all’art. 270 bis: il testo di tale disposizione, come noto modificato dal D.L. 374/2001, adegua l’apparato sanzionatorio interno del nostro ordinamento agli obblighi internazionali assunti dalla Stato Italiano predisponendo azioni di contrasto al terrorismo internazionale (con l’inserimento, nell’intitolazione del reato, del riferimento al terrorismo “anche internazionale”, e con la previsione al comma terzo, che “ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale”) prendendo atto delle mutate forme di manifestazioni del fenomeno terroristico che ha assunto una dimensione sempre più transnazionale.

Rilevanza probatoria della black list

Il Tribunale del riesame aveva ritenuto che l’inserimento del gruppo di appartenenza del ricorrente nell’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato dall’Unione europea, ai sensi del Reg. n. 2023/1505 del 20 luglio 2023, integrasse una presunzione, suscettibile di prova contraria da parte della difesa, in ordine alla natura terroristica dell’organizzazione.

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La difesa sosteneva che il Tribunale sarebbe venuto meno alla verifica in concreto delle finalità terroristiche del gruppo, non essendo sufficiente il mero inserimento nel predetto elenco e non potendosi neppure ipotizzare, per effetto di tale dato formale, una sorta di inversione dell’onere probatorio.

Sul tema è ricorrente il principio giurisprudenziale secondo cui la natura di associazione terroristica si ricava non solo dall’inclusione dell’organizzazione negli elenchi di associazioni terroristiche stilati dagli organismi sovranazionali, ma anche dalla disamina del concreto manifestarsi dell’organizzazione stessa alla stregua degli indici descrittivi fattuali indicati dall’art. 270-sexies cod. pen. (Cass. Pen., Sez. V, n. 10380/2019).

La sentenza in esame precisa che l’inserimento di una determinata associazione nella cosiddetta black list non introduce una presunzione, nel senso processuale del termine, valevole in ambito giudiziario, con connessa inversione dell’onere della prova, ma assume valore indiziario potendo, pertanto, essere valorizzato non autonomamente, ma unitamente ad ulteriori e diverse emergenze processuali, per l’accertamento della finalità di terrorismo.

La “ribellione armata” è riconducibile alla nozione di terrorismo?

I giudici di merito avevano valorizzato, nell’ordinanza genetica e in quella confermativa, il contenuto di alcune intercettazioni dalle quali emergeva la pianificazione di un attentato da compiersi presso l’insediamento israeliano in Cisgiordania finalizzato a colpire lì dove vi era la presenza di più persone ed in modo tale da realizzare un gesto eclatante.

La difesa sosteneva invece che l’obiettivo fosse esclusivamente militare e che la reazione armata dovesse considerarsi legittima.

La Corte ha ritenuto che l’avvenuta ricostruzione di un apparato organizzativo strutturalmente deputato al compimento di forme di reazione armata non unicamente dirette a colpire la presenza militare sui territori occupati offrisse elementi ampiamente idonei a sostenere che le organizzazioni nel cui ambito operava il ricorrente perseguissero finalità di terrorismo, non essendo in alcun modo possibile una netta separazione tra forme di resistenza legittime secondo il diritto internazionale e condotte di natura terroristica.

A tal riguardo, la Corte ha richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui l’art. 270 sexies cod. pen. rinvia, quanto alla definizione delle condotte terroristiche o commesse con finalità di terrorismo, agli strumenti internazionali vincolanti per l’Italia: orbene, a seguito della integrazione della citata norma da parte della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, stipulata a New York l’8 dicembre 1999 e ratificata dall’Italia con la legge 14 gennaio 2003 n. 7, costituiscono atto terroristico anche gli atti di violenza compiuti nel contesto di conflitti armati rivolti contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico (Cass. Pen., Sez. I, n. 1072/2007).

Con specifico riferimento agli atti di resistenza violenta commessi in un contesto bellico, infatti, la Convenzione ONU di New York del 9 dicembre 1999 per la repressione dei finanziamenti al terrorismo, all’art. 2, lett. b), espressamente sancisce che ha finalità di terrorismo “qualsiasi altro atto diretto a causare la morte o gravi lesioni fisiche ad un civile, o a qualsiasi altra persona che non ha parte attiva in situazioni di conflitto armato, quando la finalità di tale atto, per la sua natura o contesto, è di intimidire una popolazione, o obbligare un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o a astenersi dal compiere qualcosa”.

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Sulla base di tali richiami, la Corte ha affermato il principio secondo cui, in base all’art. 270-sexies cod. pen. e alla Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York l’8 dicembre 1999, ratificata dall’Italia con la legge 14 gennaio 2003 n. 7, costituiscono atto terroristico le condotte che, pur se commesse nel contesto di conflitti armati, consistano in condotte violente rivolte contro la popolazione civile presente in territori che, in base al diritto internazionale, devono ritenersi esser stati illegittimamente occupati.

La nozione di Stato estero rilevante ex art. 270 bis c.p.

Altra questione di interesse affrontata dalla Cassazione con la sentenza in esame concerne la possibilità di ritenere applicabile al caso di specie il dettato dell’art. 270-bis, comma terzo, cod. pen., lì dove estende la nozione di finalità terroristiche anche agli atti di violenza rivolti contro uno Stato estero: ciò in quanto le condotte violente non erano dirette contro il territorio israeliano, ma contro i territori palestinesi indebitamente occupati da Israele.

La Corte ha ritenuto non condivisibile la tesi difensiva in quanto fondata su una nozione eccessivamente limitata di “Stato estero”, in diretto ed esclusivo collegamento con il territorio dell’entità statale, che escluderebbe la possibilità di applicare la norma incriminatrice in tutti quei casi in cui l’offesa sia arrecata al di fuori dell’ambito territoriale e non direttamente nei confronti dell’apparato istituzionale.

L’elemento territoriale – ha affermato – è solo uno degli aspetti caratterizzanti l’ente “Stato” e, peraltro, non rileva ai fini dell’individuazione del bene giuridico tutelato, posto che l’art. 270-bis, comma terzo, cod. pen. si applica anche ad altri soggetti – quali le istituzioni o organismi internazionali – di regola non fondati su base territoriale.

L’argomento dirimente della questione è insito nella nozione stessa di “atto con finalità di terrorismo” intendendosi per tale quello che, per la sua natura o contesto, può arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale ed è compiuto allo scopo di intimidire la popolazione.

La finalità di terrorismo è in altre parole desumibile dall’effetto e non dal luogo ove le condotte vengono realizzate.

In buona sostanza, la personalità internazionale dello Stato – anche estero – è lesa per il semplice fatto che i suoi cittadini siano destinatari della condotta terroristica, a prescindere dal luogo ove questa venga realizzata, con la conseguenza che il reato di cui all’art. 270-bis cod. pen. sarà configurabile sia nel caso in cui la popolazione è oggetto di attacco terroristico all’interno dei legittimi confini nazionali dello Stato, sia quando la medesima condotta venga realizzata al di fuori dei confini nazionali e anche in territori illegittimamente occupati, posto che l’aggressione realizzata ai cittadini in virtù della loro nazionalità si traduce in ogni caso in una lesione all’integrità dello Stato di appartenenza.

Sulla scorta di tali osservazioni la Corte ha affermato il principio secondo cui “la nozione di atti di terrorismo rivolti contro uno Stato estero, di cui all’art. 270-bis, comma terzo, cod. pen., ricomprende anche le condotte violente, finalizzate ad intimidire la popolazione civile anche se realizzate, come nel caso di specie, in territori illegittimamente occupati e al di fuori dei confini nazionali riconosciuti dall’ordinamento internazionale, posto che la finalità di terrorismo rileva in quanto diretta a colpire lo Stato estero a prescindere dall’ambito meramente territoriale in cui la condotta viene realizzata.

Diritto penale, a cura di Cadoppi Alberto, Canestrari Stefano, Manna Adelmo, Papa Michele, Ed. Utet Giuridica. Trattato in 3 tomi e oltre 8.000 pagine. Analizza il sistema penale e tutti i tipi di reati e di contravvenzioni previsti dal codice penale.
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